21° Conferenza sul clima

CLIMA: Parigi ultima spiaggia?

La posta in gioco è altissima: un accordo universale vincolante sul clima che riporti il riscaldamento del pianeta sotto i 2 gradi. Solo così si potrebbe tornare in traiettoria (oggi siamo a +4 °C) e scongiurare altre catastrofi e migrazioni climatiche, peraltro già in corso. Parigi 2015 non è solo una Conferenza delle parti, è una partita decisiva per la nostra civiltà del carbonio.

Parigi ultima spiaggia. Lo si vorrebbe non dire. Lo si dice a denti stretti. Ma ormai c'è una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Continui record infranti, temperature impazzite, meteoalarm, cicloni, inondazioni, il pianeta che va arrosto. Parliamo ovviamente di clima, di surriscaldamento dell'atmosfera e dell'appuntamento che, dal 30 novembre, nella capitale francese vedrà i leader del mondo cercare una intesa che finora è mancata.

Sì, perché se le sofferenze del pianeta sono sempre più evidenti, sull’altro fronte c'è l'impotenza sostanziale dei popoli, che non riescono a trovare accordi vincolanti globali capaci di contenere sotto i 2 gradi (soglia considerata di relativa sicurezza) entro la fine del secolo (rispetto al periodo pre-industriale), il riscaldamento del pianeta Terra. Riscaldamento che invece procede a una media del doppio: viaggiamo a 4 gradi di aumento, per la precisione fra i 3,7 e i 4,8 °C, con concentrazioni di CO2 equivalente comprese tra il doppio e il triplo rispetto ai 450 ppm, cioè parti per milione, assunte ad obiettivo sostenibile.

"In un mondo a +4 °C i cambiamenti climatici diventano il driver dominante dei mutamenti degli ecosistemi – osserva allarmato Edo Ronchi, presidente Fondazione per lo sviluppo sostenibile – superando la distruzione degli habitat come la più grande minaccia alla biodiversità".

A preoccupare non sono soltanto i fenomeni atmosferici estremi collegati – oltre che alla riduzione della biodiversità – alla povertà e all'aumento delle diseguaglianze per via degli enormi costi dell’adeguamento climatico (dai 100 miliardi di euro annui nel 2020, ai 250 miliardi nel 2050 e solo in Europa, stime della Commissione Europea). Assistiamo infatti alle cosiddette "migrazioni climatiche", che vengono in parte confuse con migrazioni economiche e/o politiche, a partire dalla recente crisi umanitaria che l'Ocse ha definito "senza precedenti" calcolando in un milione i rifugiati entro il 2015 in Europa.

Ma sono già oltre 200 milioni (Rapporto Onu) le persone colpite ogni anno nel mondo dai disastri legati al clima, ed è già cominciata la diaspora dei cosiddetti "profughi climatici", che sfollano da isole e zone costiere spinti anche dalla riduzione dei raccolti e non solo dalla guerra: potremmo essere solo all'inizio degli sconvolgimenti.

La realtà dolorosa è questa ed è anche per questo che la 21a Conferenza delle parti (Cop21), organizzata dall'Onu a Parigi ("Per un accordo universale sul clima", dal 30 novembre all’11 dicembre), rappresenta una sorta di ultima spiaggia per l'umanità chiamata a un "radicale cambio di rotta".

Non esita a dirlo in questi termini Nicholas Stern, già capo economista della Banca Mondiale e oggi presidente del Grantham Research Institute : "Serve una riduzione di 7-8 volte entro il 2050 delle emissioni procapite di gas serra – snocciola il professore intervenuto a Roma al meeting internazionale 'Verso Parigi 2015' – emissioni che oggi sono di 7 tonnellate annue di CO2 equivalente in Europa, e di 20 negli States. Dobbiamo scendere a 2 tonnellate pro-capite per arrivare a zero nella seconda metà del secolo, in virtù di un grande piano di decarbonizzazione profonda".

LA DECARBONIZZAZIONE

Per i maggiori esperti mondiali di "climatic change" non ci sono dubbi: un quarto di secolo dopo la prima negoziazione sul clima del 1992 a Rio de Janeiro, Parigi 2015 sarà come il tappone del tour de France, decisiva ai fini del risultato finale. Tra i più convinti c'è un guru dello sviluppo sostenibile come Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute della Columbia University, consigliere di Obama e del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon sugli Obiettivi di sviluppo del millennio. "Ovunque vedo crisi legate al clima – dice Sachs – e questo è solo l'inizio, peggiorerà". Poi indica il bacino del Mediterraneo tra i luoghi più fragili e vulnerabili in assoluto della Terra. "Mentre per altre aree ci sono dati discordanti, per l'Europa del Sud tutti i modelli matematici dicono la stessa cosa: che l'area sarà sempre più calda e secca. Siete sulla linea del fuoco"...

Il carbone che ha creato la nostra civiltà, ora può distruggerla. Gli scienziati non usano le mediazioni e le aperture della politica sull'argomento. Per avere un'idea del punto in cui siamo, se nel 2070 guidassimo tutti auto elettriche e fossimo riusciti a decarbonizzare l'elettricità, lasciando il petrolio sotto terra o catturandone le emissioni in atmosfera, non avremmo ancora la certezza di rimanere sotto i 2 gradi di aumento del "global warming". Sachs, che ha fatto i calcoli per l'Onu, dà la probabilità al 70%, non di più. Per lui, che è favorevole al nucleare pur di sbarazzarsi del carbone come principale fonte di energia dell'umanità, Parigi è davvero "l'ultima chance" per riprenderci il limite non superabile dei 2 gradi. Pone infatti questa richiesta in cima alla sua personale lista sottolineando che "i contributi nazionali al 2030 devono essere vincolanti, e al massimo in tre anni serve un piano di decarbonizzazione profonda". L'enfasi, gira e rigira, cade sempre lì.

LA TAPPA DECISIVA

Ma come si presenta il mondo al summit di Parigi sul clima? Con l'enciclica "verde" di papa Bergoglio sullo sfondo e 17 obiettivi di sviluppo sostenibile sul tavolo da raggiungere entro il 2030; oltre a una serie di Indc (i contributi nazionali) ben poco rassicuranti a dire il vero sulla difesa dell'ambiente e della vita dell'uomo.

Sono infatti insufficienti, numeri alla mano, gli impegni preliminari formalizzati dai governi che li hanno inviati alla Conferenza di Parigi. Nemmeno tutti, a dire il vero, lo hanno fatto. Francesca Mingrone, della onlus Italian Climate Network, fa notare che "solo 148 paesi su 195 hanno provveduto entro la scadenza che era fissata al 1° ottobre!".

Ebbene, sulla base di tali negoziati preliminari l'Agenzia internazionale dell'energia (Iea) ha calcolato che le emissioni mondiali di CO2 continuerebbero a crescere dell'8% (tra il 2013 e 2030) anziché ridursi, se vogliamo davvero rientrare nei 2 gradi. "La sola soglia che possiamo permetterci" insiste Ismail El Gizouli dell'Ipcc (il panel intergovernativo sui cambiamenti climatici) che trasmette ansia a tutti: "Oggi stiamo rischiando i 6 gradi!"

In particolare, stando alle premesse, la Cina emetterebbe 10,1 miliardi di tonnellate contro i 6,4 miliardi necessari per tornare in traiettoria (+58% dunque rispetto al target), gli Usa 4 miliardi di tonnellate contro 3 miliardi (+33%) e anche la Ue, finora la più virtuosa, potrebbe fare meglio, ad esempio con un taglio di 2,4 miliardi invece dei 2 dichiarati.

RESPONSABILITÀ DI CHI?

Su questa terna di paesi "grandi emettitori" gravano le maggiori responsabilità. Le loro mosse vengono giudicate decisive per far pendere la bilancia da una parte o dall'altra o per tenerla in equilibrio se la mettiamo in termini di giustizia ambientale, visto che vaste aree del pianeta (dall'America Latina, all'India all'Africa) hanno indici bassi di emissioni e nessuna responsabilità storica da scontare, ma sono colpite ugualmente dalla crisi climatica.

Sul banco degli imputati prima di tutti c'è la Cina (e l'Occidente verrebbe da aggiungere, che la utilizza come piattaforma per le sue importazioni a basso costo). Pur essendo incasellato paradossalmente come "paese in via di sviluppo", il continente giallo è responsabile del 30% circa delle emissioni mondiali di gas serra, percentuale in crescita. Un cambiamento di atteggiamento, tuttavia, del governo cinese – consapevole che un bambino che vive in città è come se fumasse 40 sigarette al giorno e non ha nessuna possibilità di recupero davanti a sé – fa sperare in un impegno maggiore di quanto promesso sulla carta. Il presidente Xi Jinping qualche giorno fa ha annunciato di voler intraprendere un piano di riduzione delle emissioni dal 2017.

E passiamo agli Stati Uniti, i quali hanno accumulato un notevole ritardo non ratificando il protocollo di Kyoto. Quest'ultimo è stato rinnovato nel 2012 fino al 2020 ma oltre l'80% dei paesi partecipanti si è rifiutato di sottoporsi a vincoli. Kyoto dovrà essere superato da un nuovo protocollo, come previsto a Doha dove si concordò un calendario verso l'adozione di un patto universale sul clima entro quest'anno.

 L'ACCORDO TRA USA E CINA

La latitanza degli americani che solo con Obama si sono "svegliati" dal loro sonno interessato, ha comportato una crescita di emissioni del 10% tra il 1990 e il 2012, anziché una riduzione del 7%. La buona notizia però, di pochi mesi fa, è che è stato siglato uno storico accordo bilaterale tra Cina e Usa: è la prima volta che i due paesi mettono nero su bianco che faranno retromarcia riducendo le emissioni del 26-28% entro il 2025 e del 32% al 2030. Ancora poco, visto che servirebbe un taglio del 47% per rientrare nei 2 gradi, ma gli Usa hanno mezzi e potenzialità per fare meglio, sempre se il loro Congresso lo consentirà.

La terna dei "grandi emettitori" si chiude con l'Unione europea. La quale ha raggiunto il target fissato dal protocollo di Kyoto (-19% di emissioni nel 2012 rispetto al 1990) conseguendo in anticipo anche quello al 2020. In vista di Parigi, gli europei si sono posti l'obiettivo di una riduzione del 40% al 2030 sul 1990, traguardo che sarebbe in linea con i due gradi; inoltre un +27% dei consumi energetici soddisfatti da fonti rinnovabili e un risparmio tendenziale di energia del 27%. Buoni propositi sì, ma per Edo Ronchi "le soglie si potrebbero alzare ancora e l'obiettivo andrebbe assicurato con ripartizioni nazionali vincolanti".

Il budget a nostra disposizione è ormai limitato, il tempo sta per scadere. Due terzi dei 3.000 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente sono già stati "sparati" nell'aria. Rimane un ultimo terzo, che con i trend attuali di inquinamento verrebbe superato prima del 2040. A quel punto, una volta detto addio ai 2 gradi, che sarebbero imprendibili, avremmo un pianeta del tutto instabile e fuori controllo. E, forse, come sogna l'astrofisico Stephen Hawking, staremmo facendo le valigie per lasciare la Terra e trasferirci altrove...

di Claudio Strano (www.consumatori.e-coop.it)

 

STORIA E RISULTATI DI 20 CONFERENZE: da Rio a Kyoto tra occasioni e speranze 

Per due settimane, dal 30 novembre all’11 dicembre, Parigi presiederà la 21° Conferenza delleparti (Cop21) delle Nazioni unite sui cambiamenticlimatici. Vi sono invitati 195 paesi. La convenzione quadrodi riferimento (Unfccc) – che riconoscel'esistenza di modificazioni del clima innescatedall'uomo, attribuendo ai paesi industrializzati laprimaria responsabilità di controbattere il fenomeno– è stata adottata a Rio de Janeiro nel lontano 1992, eratificata due anni dopo da 196 paesi di tutto il mondo.

Sono passati dunque più di 20 anni senza che si siano prodotti risultati apprezzabili. Qual è stato il denominatore comune di tanti negoziati? Il passo del gambero, si potrebbe rispondere. Cioè la filosofia per cui i paesi puntano a restare più indietro possibile, pensando di sfruttare i benefici della riduzione delle emissioni realizzata, però, da altri...

Tornando alla Conferenza delle parti, va detto che essa è composta da tutti gli Stati membri e costituisce l'organo supremo della Convenzione: le riunioni per assumere decisioni e trovare accordi nel rispetto degli obiettivi prefissati hanno una cadenza annuale.

Nello stesso luogo e nello stesso periodo della Cop, si tiene anche la Cmp, la Conferenza delle parti aderenti al Protocollo di Kyoto, del 1997, che fissa dei limiti vincolanti di taglio delle emissioni a carico dei paesi più industrializzati. Parigi ospiterà l'undicesima Cmp: la prima fu in Canada, a Montreal, nel 2005, anno di entrata in vigore del famoso trattato internazionale che vede gli Stati Uniti come grande assenti (possono partecipare come osservatori ma senza diritto di voto).

Al 2007 data la “Dichiarazione di Washington” sottoscritta, questa volta, anche dagli americani: un documento che avrebbe dovuto portare al superamento del protocollo di Kyoto scaduto nel 2012 e rinnovato fino al 2020, ma di fatto depotenziato dal rifiuto a prendersi impegni vincolanti da parte dell'80% dei paesi partecipanti tra cui dei giganti come India, Cina, Brasile, Russia e Canada.

Politicamente più rilevante, per arrivare ai nostri giorni – dopo fallimenti, compromessi dell'ultima ora e rinate speranze nei vari summit che si sono succeduti a Copenhagen nel 2009, Cancun nel 2010, Durban 2011, Doha 2012, Varsavia 2013, Lima 2014 – è il recente vertice G7 di Garmisch. Voluto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, si è chiuso con un chiaro riconoscimento sull'obiettivo del contenimento dell'aumento di due gradi della temperatura globale. E lì c'era anche il presidente Obama.

 

 

Alcuni spunti di riflessione sul tavolo a Parigi: per un buon accordo internazionale 

Accanto al problema quantitativo delle percentuali di riduzione dei gas serra, ce n'è anche uno etico che attiene alla equità nei meccanismi di distribuzione dello sforzo per "mitigare" la crisi climatica (stiamo parlando di questo, non di risolverla...). "Occorre avviare una equa convergenza verso un livello sostenibile di emissioni pro-capite", scrive il presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile Edo Ronchi. Il quale sottolinea che i più poveri stanno pagando il conto più salato essendo più direttamente legati alle risorse naturali per il loro sostentamento e non avendo tecnologie e strumenti per adeguarsi agli sconvolgimenti climatici.

Molti sono gli spunti da sviluppare per un buon accordo a Parigi. Tra questi definire target vincolanti e periodicamente verificabili; vietare la costruzione di nuove centrali a carbone chiudendo le più vecchie e inefficienti; ridurre il consumo di petrolio evitando nuove perforazioni in zone ecologicamente delicate. Tra i maggiori ostacoli da abbattere, ovviamente, c'è la lobby dell'industria dei combustibili fossili. "Va discriminata come quella del tabacco e non sostenuta dai governi", suggerisce José Maria Vera Villacián, direttore esecutivo della ong spagnola Oxfam IntermÓn, costola dell'Oxam internazionale. "Contro 1 dollaro speso a favore della green economy – è il suo j'accuse – ce ne sono 6 sborsati a sostegno dell'economia fossile". Il paradosso è proprio questo, che mentre ci si scanna per limare le percentuali di riduzione, i sussidi dei governi ai combustibili fossili hanno raggiunto nel 2014 la cifra di 510 miliardi di dollari!

Altri spunti interessanti sottoposti all'attenzione dei 195 paesi convocati a Parigi sono il rafforzamento degli investimenti nell'economia verde; politiche e misure di risparmio energetico in tutti i settori; un incremento delle fonti rinnovabili con target adeguati sottoscritti dai principali emettitori. Nel 2013 (dati Iea), le fonti rinnovabili (cresciute del 64% sul 1990) hanno fornito il 14% della domanda primaria di energia contro l'81% ancora soddisfatto con fonti fossili (per l'esattezza il29% dal carbone, il 31% dal petrolio e il 21% dal gas).

Sul tavolo ci sono anche l'estensione della riduzione della carbon tax e il controllo del settore dei trasporti, che da solo nel 2013 ha consumato il 27,8% dell'energia producendo il 21% delle emissioni mondiali di CO2 (+60% rispetto al 1990, con lo spettro della forte crescita di mobilità prevista nei prossimi decenni in Cina, India, Russia e nei paesi in via di sviluppo, e gli scandali come quello della Volkswagen, spie di un approccio malato al problema).

Tanti i temi da affrontare, dunque, a Parigi per una sfida importantissima per le sorti dell'umanità. E tanti anche i punti interrogativi. Uno su tutti: una politica che è sempre più focalizzata sui risultati immediati. Quello che il mondo scientifico teme più di ogni altra cosa è proprio l'incapacità dei politici di mettere il "climatic change" davanti a tutto, interessi compresi.

"Non capiscono una cosa", osserva Nicholas Stern: "Se falliamo l'obiettivo del cambiamento climatico, falliremo anche quello della riduzione della povertà e delle diseguaglianze su tutto il pianeta".